Bihaku: la candida bellezza del bianco

da | Ago 14, 2020 | Beauty and us | 1 commento

A cura di Loris Usai

È nato a Roma nella seconda metà degli anni ’80. Sin da bambino sogna il Giappone, e dal 2012 vive in pianta stabile a Tokyo dove svolge con inguaribile passione il lavoro di interprete e traduttore. Inoltre, sfruttando le conoscenze apprese durante gli anni di studio e la quotidianità in loco, scrive articoli incentrati su cultura, usanze e tradizioni del Giappone antico e contemporaneo, ponendo spesso al centro tematiche relative alla comunità LGBT giapponese.

La saggezza dei proverbi parla chiaro: “Il candore del bianco nasconde ogni imperfezione”*.

L’attenzione delle donne giapponesi per la cura e il mantenimento di una carnagione che sia il più eterea possibile, impeccabile e bianca come la neve, è un fatto risaputo. Questa ossessione diventa oltremodo palese visitando qualunque negozio di cosmetici, profumeria o addirittura farmacia in Giappone: maschere facciali, creme, trattamenti di ogni genere per sbiancarsi o “illuminarsi”, come dicono i giapponesi, la carnagione e raggiungere il tanto agognato canone estetico di bihaku (letteralmente “bellezza candida”, equivalente al livello massimo di pregevolezza che può raggiungere la pelle di una donna).

L’apprezzamento della carnagione bianca come canone estetico ha delle radici molto profonde in Giappone e risale a circa 1300 anni fa, durante il periodo a cavallo tra le epoche Asuka (538 – 710 d.C.) e Nara (710 – 794 d.C.) quando, contemporaneamente alla massiccia importazione dalla Cina di pratiche religiose buddhiste e conoscenze tecniche in vari ambiti, cominciarono ad affacciarsi sulle sponde dell’arcipelago Giappone anche usanze legate all’estetica e alla moda dell’epoca. Tra queste, la colorazione bianca della pelle come segno di eleganza e di pregio. L’applicazione di una polvere biancastra chiamata oshiroi  (letteralmente “polvere bianca”) ricavata dalla frantumazione del riso o di gusci di conchiglie praticata sino a quel momento in Giappone, venne gradualmente sostituita dalla tecnica ben più efficace introdotta dal continente che consisteva nello sbiancamento della pelle spalmando su di essa una sostanza a base di piombo.

Complice anche l’ammirazione con cui l’aristocrazia in Giappone guardava alla raffinatezza della sofisticata civiltà cinese dell’epoca, la pratica di sbiancarsi la pelle con uno stato di oshiroi a base di piombo divenne presto una moda largamente diffusa tra i nobili della corte giapponese. Non solo le donne, ma anche gli uomini della nobiltà erano soliti applicare sul viso una base di oshiroi. Trattandosi di un cosmetico estremamente costoso e pregiato, al concetto di bellezza estetica si affiancava contemporaneamente anche il simbolo del proprio status in società. E così, dal desiderio spasmodico di bellezza ed eleganza perseguito della raffinata aristocrazia di corte, si consolidò in Giappone il culto estetico per una carnagione bianco pallido, di un candore assoluto e privo di imperfezioni.

Nel corso dei secoli l’usanza di pitturarsi il volto e la nuca con uno strato di oshiroi bianco latte ha lasciato il posto al ben più sostenibile concetto di una pelle tendente al bianco in maniera “naturale”. Anche se le donne giapponesi non si dipingono più il volto, rimane implicito nella memoria storica il valore e la pregevolezza di una pelle candida, un canone estetico tramandato sino ai giorni nostri e di cui ne sono inequivocabile dimostrazione tutti i centri commerciali del Giappone, per la loro offerta in termini di cosmesi che esalta il biancore della pelle come il valore a cui aspirare.

Lasciando da parte il discorso relativo alle numerose tendenze di nicchia che rappresentano i più svariati stili di vita in termini di estetica e gusto, nel corso della storia giapponese c’è stata anche una parentesi, breve e tuttavia significativa, in cui il canone estetico prevalente ha subito uno switch massiccio passando dal concetto di “pelle al naturale” a quello di “pelle color grano”. Stiamo parlando di un periodo storico incredibilmente recente, che corrisponde grosso modo agli anni ’60 del secolo scorso. La fine del conflitto mondiale, il dopoguerra e la ricostruzione post-bellica, la rampante ascesa economica del Giappone sulla scena internazionale, hanno comportato non pochi mutamenti nella società giapponese. Il potere economico acquisito dai giapponesi in quegli anni li ha messi in condizione di levarsi tutti gli sfizi di cui sentivano il bisogno, e nel nome della loro intramontabile ammirazione verso i modelli provenienti dall’esterno, come fu all’epoca per Cina, rivolsero stavolta la propria attenzione alla potenza economica che in quel momento storico fungeva per loro, come per buona parte del mondo, da modello di riferimento: gli Stati Uniti d’America. In un breve lasso di tempo si cominciò a guardare alla pelle abbronzata come un canone estetico di grande tendenza, un sinonimo di “salute” in linea con i modelli occidentali. La stessa Shiseido, colosso dell’industria cosmetica giapponese, lanciò nel 1966 la campagna promozionale per una linea estiva di cosmetici incentrata sul concetto del godimento dell’estate, il cui slogan recitava “Lasciamoci amare dal Sole”, e raffigurava modelle (giapponesi) dalla pelle dorata sotto i raggi del sole. In quegli anni era usanza per le ragazze che non potevano abbronzarsi naturalmente in spiaggia utilizzare dei fondotinta dalle tinte bronzee calde. Ma era una moda incompatibile con la tradizione, e destinata a volatilizzarsi ben presto dall’immaginario collettivo.

Lo sviluppo della ricerca in campo scientifico, e con esso l’evidenza che l’esposizione ai raggi solari sia causa di sgradevoli conseguenze come macchie e rughe, nonché di pericolose malattie della pelle, ha favorito un ritorno all’antica preferenza delle donne giapponesi per una carnagione bianca e impeccabile come un manto di neve fresca. La candida bellezza del bianco che, come vuole il proverbio, ha la forza intrinseca di condonare altre imperfezioni. È il concetto di bihaku, ossiail canone estetico per eccellenza che ha stabilito per secoli in Giappone il confine tra eleganza e volgarità.


* In giapponese: Iro no shiroi wa shichinan kakusu (色の白は七難隠す).


Articolo di Loris Usai

1 commento

  1. Gaia

    Il bianco è stupendo. Da estate assoluta, grazie alla tua splendida consulenza, con pelle diafana, non posso che amarlo. Quando mi vesto di bianco, con il trucco naturale ad esaltare il mio incarnato nordico, mi sento bella. Prima di incontrarti Arianna, cercavo di scaldarmi, di trasformarmi in primavera, ma oggi amo i miei colori e tu mi hai insegnato a valorizzarmi. Grazie a te mi vedo bella e fresca

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